@ - Oliviero Toscani ci regala un’ultima fotografia che resterà per sempre. È la foto di un uomo che mentre lascia la vita, fissa la sua libertà. Quella di aver vissuto come voleva e di morire come vorrà. “Un giorno chiamerò il mio amico Marco Cappato”, dice. Andrà a Zurigo a vedere una sua mostra e poi proseguirà il cammino. “Farebbe molto ridere”, aggiunge. Ma chi parla di eutanasia, in genere non fa ridere.
Per gli uomini del ventunesimo secolo, la libertà è come l’occhio che fissa il sole. Possiamo tollerarne solo un bagliore, se andiamo oltre ci assale il fuoco che punisce chi ha osato. Ma la morte dolce è anch’essa una scelta umana, intrisa magari anche di dolcezza.
Oliviero Toscani ha vissuto come un uomo libero
La dolcezza di Oliviero Toscani. Si pensa istintivamente al personaggio pubblico. All’ardito provocatore del sedere in jeans che proclamava “chi mi ama mi segua”. Al profanatore dei religiosi in tonaca che si baciano sulla bocca. Si pensa: “Guardalo ora, poverino, così smunto e inchiodato al pacemaker e alle stampelle”. Eppure non va compatito, perché la sua grandezza è ora. Mentre rivela la sua umanità indifesa e racconta le piccole cose di oggi, “leggo, guardo l’Inter in tv e Sinner che mi dà sollievo”. Mentre dice di aver lasciato tutto indietro – la fotografia, la patria, le proprietà – insieme ai 40 chili che ha perso in un anno per una malattia che non lascia scampo. Mentre fa svolazzare nell’aria la sua dignità: sono stato un forever young dell’era di Bob Dylan, ho vissuto come un uomo libero, ora non voglio far pesare la mia malattia sugli altri.
La libertà di morire
Toscani parla con il Corriere ma in realtà parla al vuoto, ai suoi ricordi, al silenzio. È solo, lo sa, lo accetta. “Non ho mai avuto un padrone”. Non lo vuole neppure ora. Non vuole che qualcuno gli dica come deve andarsene, in base a princìpi astratti che non sono i suoi. I princìpi, poi… Ha viaggiato troppo, Toscani, per non capire che chi vuol convincerti a non scegliere di morire lo fa perché non vuole esser costretto a riflettere sulla morte. Perché di tutto si può parlare, in questo Occidente rotolante nella bulimia del vivere e dell’esagerare, salvo che del momento in cui si spengono le luci e gli amici vanno via, come recitava una vecchia canzone. L’idea stessa della morte ci terrorizza e va rimossa, per questo neghiamo che possa esistere la libertà di morire. Chi professa questa facoltà deve essere per forza un disperato, un pazzo o un malato di nervi. Ma la Chiesa ha santificato tante marie goretti che hanno preferito la morte all’onta di perdere valori per loro più alti.
Gli adii di chi non ha paura della morte
Si tratta, in tutti i casi, di sacrificare la propria esistenza per qualcosa che si ritiene più nobile; per una qualità della vita che ognuno declina in modo diverso. Per Socrate la coerenza vale una cicuta, quindi preferisce andarsene che violare la legge. Per Bettino Craxi “la libertà equivale alla vita”, quindi preferisce morire in Tunisia che guarire in Italia da detenuto. L’Oliviero Toscani di ieri urlava con le immagini per stupire il mondo. Quello di oggi sussurra per tutti noi, che non ne parliamo per pudore e paura, ma dei giorni della fine temiamo soprattutto il nostro comodino affollato di flaconi e il nostro letto di tubetti che ci trafiggono il corpo. C’è Dio che ci aspetta? È proprio per questo che morire dovrebbe sembrarci solo un sogno più lungo del solito, un suono come quello della viola d’inverno di Roberto Vecchioni. Oliviero Toscani, se deciderà di non accettare l’umiliazione di esserci senza vivere, diventerà un mosaico di fotografie. In una c’è Piergiorgio Welby, che salutò la vita facendole una dichiarazione d’amore: “Vita è anche un giorno di pioggia, anche la tua donna che ti lascia”. In un’altra il professor Remy delle Invasioni Barbariche, che nelle vene ha un ago, nelle mani le mani della sua donna, negli occhi gli occhi delle sue figlie e dei suoi amici che lo guardano come se avessero tutti 20 anni. In un’altra ancora c’è Thomas, il medico di Milan Kundera, avvolto in una nuvola di luce bianca dopo aver attraversato la primavera e l’autunno di Praga, da uomo che non si piega a nulla. Quelli come loro, o come noi un giorno, non hanno paura della morte. Hanno paura di chi ne ha paura. Perché l’abisso non è una voragine, ma una prateria degli indiani d’America, una distesa verde in cui si cammina lentamente e si tengono gli occhi chiusi, per sentire meglio il sole del dopo che ti accarezza la pelle.
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