@ - Concentrati sui guai che il disastro del protocollo con l’Albania comporta per la premier in patria, che ci sono e sono grossi, si rischia di perdere di vista quelli nei quali si trova immersa sullo stesso fronte Ursula von der Leyen e di conseguenza, anche a Bruxelles e Strasburgo, la medesima Giorgia.
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Le audizioni con votazioni finali sui commissari indicati dalla presidente stanno per iniziare: è quanto di più vicino a un voto di fiducia ci sia nell’europarlamento. Infatti è proprio quella l’occasione scelta da socialisti, liberali e verdi per far vacillare la nuova commissione ancora prima che nasca. La pietra dello scandalo è proprio l’accordo tra Italia e Albania. La presidente lo ha sponsorizzato e citato a esempio: è il terreno eminente sul quale procede a tappe forzate la marcia di riavvicinamento tra la presidente europea e la premier italiana dopo lo strappo di luglio, quando FdI non votò per la riconferma di Von der Leyen. Con la sola eccezione del Ppe, i partiti che hanno sostenuto e votato la rielezione si mettono di mezzo e minacciano la spallata. “Se von der Leyen vuole l’esternalizzazione della migrazione non conti su di noi”, avverte il gruppo europeo Socialisti e Democratici. Il metodo Meloni “è assurdo e illegale”, rincarano i liberali di Renew.
La minaccia, esplicita, è quella di bocciare a Strasburgo i commissari scelti dalla presidente, a partire da Raffaele Fitto che nell’audizione non potrà certo schierarsi contro il protocollo che doveva essere il fiore all’occhiello del governo da cui proviene. Sarebbe un terremoto, perché a quel punto i Popolari probabilmente boccerebbero per rappresaglia i commissari socialisti. La sedicente maggioranza che ha eletto Von der Leyen già è di fatto inesistente. In caso di bocciature incrociate imploderebbe. L’antefatto è significativo ed esplicativo. I socialisti, con i verdi e la sinistra, avevano chiesto di discutere in plenaria il protocollo. I popolari hanno votato contro insieme a tutti i gruppi di destra, “intoccabili” neonazisti dell’AdF inclusi, e hanno affossato il dibattito. Sarebbe stato un incidente comunque ma è infinitamente più grave perché conferma lo spostamento a destra clamoroso sia della presidente che dei popolari.
Ursula, presidente pochissimo amata dai gruppi alleati del Ppe nel sostenerla, ce l’ha fatta nonostante non piacesse a nessuno proprio impugnando la necessità di fare muro contro la destra all’arrembaggio. Appena rieletta è tornata a guardare a destra, così come il gruppo di maggioranza relativa a Strasburgo, il Ppe, che proprio sull’immigrazione trova il principale terreno comune con i Conservatori di Meloni, ma spesso ormai anche con la destra radicale dei Patrioti e della AfD. Ieri se ne è avuta un’altra e ancora più clamorosa prova. I popolari hanno votato un emendamento al bilancio europeo presentato proprio dalla Afd: proponeva la costruzione di un muro contro i migranti e la “valutazione” di “poli di rimpatrio al di fuori della Ue”. In sintesi il modello Meloni-Albania. Il bilancio non è stato approvato. La mozione non è passata, l’emendamento è quindi decaduto ma il segnale politico non poteva essere più plateale perché il relatore socialista sul bilancio, Viktor Negrescu, ha poi dichiarato in conferenza stampa che i socialisti “si sentono traditi dal Ppe che non ha rispettato gli accordi e ha votato diversi emendamenti con i Patrioti”.
La presidente, che in queste acrobazie è insuperabile, visto il rischio sterza e si allontana da quel protocollo che aveva magnificato appena pochi giorni fa: “Fin dall’inizio siamo stati molto chiari e abbiamo detto che avremmo monitorato da vicino lo sviluppo di questo accordo”.
Non è affatto detto che ai socialisti, ai liberali e ai verdi la spostamento tattico della presidente basti. I diritti, e dunque l’immigrazione, sono diventati il principale terreno di scontro in Europa. Il Mediatore Europeo, cioè l’istituto che indaga sulle denunce contro le istituzioni europee, ha criticato ieri formalmente la Commissione della precedente legislatura per “non essere stata trasparente riguardo alle informazioni sui diritti umani sulle quali si è basata per firmare l’accordo con la Tunisia”. È un’altra frecciata ai danni della presidente di ieri, che è la stessa di oggi.
Ma i guai della Von der Leyen sono tali anche per l’amica italiana: sia che la presidente se ne distanzi per mettersi al riparo, sia che scelga (come è poco probabile) la rotta di collisione con tutta la sua maggioranza tranne il Ppe, il ruolo europeo a cui ambisce Meloni ne andrà di mezzo. Del resto che il suo punto debole internazionale siano proprio i diritti lo dimostra anche la nota del dipartimento di Stato Usa che segnala “la preoccupazione degli Usa” per la legge italiana sulla maternità surrogata che “discrimina le famiglie”. Problemi internazionali che si accostano ai nuvoloni nazionali tutt’altro che dissipati.
Ieri al termine del Consiglio Supremo di Difesa, la premier ha scambiato alcune parole in privato con Mattarella, e al centro della chiacchierata c’era probabilmente il dl sui migranti. La preoccupazione del capo dello Stato è massima, anche se la norma procedura aggiunta all’ultimo momento, quella che rende possibile al governo ricorrere contro le sentenze come quella del tribunale di Roma in appello invece che solo in Cassazione per accelerare i tempi, è considerata dal Colle inoffensiva e secondo alcuni giuristi offrirebbe anzi ai migranti maggiori garanzie. Ma il testo finale del dl è ancora in forse, la firma del presidente non c’è, un’arma per risolvere a proprio favore il conflitto con la magistratura il governo non la ha trovata e non la troverà. L’hot spot albanese rischia di trasformarsi in un desolato monumento al fallimento di una strategia e di un modello, quelli della premier.
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