@ - Quali sono le priorità strategiche che l’America sta difendendo, sin dal primo minuto della crisi? E quali sono gli incubi ricorrenti dell’Amministrazione Biden?
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«Fino alla fine della settimana». Rivela in queste ore il Wall Street Journal che gli Stati Uniti avrebbero convinto Israele ad aspettare ancora 3-4 giorni prima di lanciare l’offensiva di terra su Gaza. Sarebbe il tempo necessario per predisporre le difese missilistiche che servono a proteggere le forze Usa in Iraq, Siria, Kuwait, Giordania, Arabia Saudita ed Emirati arabi. Ma anche a garantire gli obiettivi essenziali dell’America in questa crisi senza precedenti, rispetto ai quali l’amministrazione Biden si è mossa con lucidità fin dalle prime ore. Con una Israele sotto choc e letteralmente fuori combattimento tra il 7 e l’8 ottobre, il presidente in persona ha garantito la sicurezza dello Stato ebraico, con due discorsi in cui non ha lasciato dubbi sulla sua determinazione a difenderlo e con due mosse concrete:
- una, l’invio delle portaerei Ford e Eisenhower, ha immediatamente spento le eventuali tentazioni iraniane di approfittare della debolezza israeliana;
- l’altra, con la richiesta al Congresso di altri aiuti a Israele (in aggiunta ai 3,5 miliardi di dollari annui) che ha chiarito una volta di più che l’appoggio americano è sine die.
Una volta affrontata a dovere l’emergenza, restano le urgenze tattiche e le priorità strategiche che l’America sta difendendo con forza sia rispetto ai nemici, sia rispetto a un alleato che in questa fase ha smarrito la sua proverbiale efficienza, ma vuole dimostrare di averla recuperata rapidamente. Proviamo ad analizzare i punti fermi della politica americana in questo momento storico che può definire un’epoca. Punto per punto:
1.Prendere tempo per l’invasione
Se l’attacco avverrà tra sabato e domenica, Biden sarà riuscito a trattenere Israele per tre settimane, sempre che alla fine non diventino di più. Questo lasso di tempo è servito a placare la furia dello Stato aggredito da Hamas il 7 ottobre, e a evitare mosse precipitose e potenzialmente devastanti per gli interessi americani e la stabilità globale. Biden ha usato tutta la sua moral suasion per convincere l’alleato ferito a «evitare i nostri errori del dopo 11 settembre», quelli prodotti dalla rabbia incontrollata e dall’orgoglio smisurato. Ha mandato i suoi militari più adatti all’occasione, a cominciare dal generale James Glynn, veterano dell’Iraq, per dare agli israeliani ansiosi di rivincita uno sguardo più distaccato e professionale. Si trattava di ricordare agli israeliani, come ha spiegato Amos Harel su Haaretz, che «un Paese non va in guerra armato solo con l’atteggiamento “C’mon, let’s attack them”. Gli americani vogliono sapere quali sono gli obiettivi dell’operazione, nel dettaglio; quali sviluppi prevedono i loro colleghi israeliani; quali meccanismi per porre fine alla guerra sono stati presi in considerazione; e qual è il finale di partita desiderato da Israele a Gaza, nel più ampio teatro palestinese e nella regione nel suo complesso».
2.Distruggere Hamas, ma a poco a poco
Non era semplice trattenere un alleato che avverte come prima e comprensibile necessità quella di riaffermare la propria deterrenza, rassicurare la propria popolazione e vendicare le proprie vittime. L’obiettivo della distruzione totale di Hamas è condiviso: gli israeliani hanno spiegato che Hamas è paragonabile all’Isis nella propensione al male ma diverso in quanto entità che governa un territorio a pochi metri dai kibbutz ebraici. Gli americani l’hanno capito, ma quello che stanno cercando di spiegare a loro volta a Israele è che pensare di distruggere Hamas senza porsi limiti nei modi e nei tempi è pericoloso e potenzialmente controproducente, perché un numero enorme di vittime civili può alienare l’opinione pubblica occidentale, rafforzare i nemici più o meno comuni (Iran, Russia, Cina), allontanare gli Stati arabi moderati, aumentare il rischio di guerra totale.
Dunque, l’oscillazione israeliana tra l’impulso di colpire in modo rapido e massiccio e l’assunto di avere tutto il tempo a disposizione per strangolare Gaza e annientare i terroristi, va superata inquadrando il fattore tempo in termini diversi: «Israele ha tempo per agire, purché agisca in modo appropriato e produca risultati. Ma, ad avviso degli americani, ciò deve avvenire senza occupare Gaza o commettere crimini di guerra che violerebbero il diritto internazionale».
In poche parole, gli americani stanno cercando di persuadere gli israeliani che non è detto che la soluzione sia per forza andare a combattere casa per casa pensando di chiudere i conti con Hamas subito. L’invasione deve assestare un colpo brutale all’organizzazione islamista, ma non necessariamente definitivo e immediato perché il «definitivo e immediato» comporta troppe vittime. Al colpo brutale possono seguire la continuazione degli attacchi aerei — che già in questi 18 giorni hanno avuto un’intensità senza precedenti —, le ripetute incursioni di terra delle forze speciali e l’assassinio sistematico dei capi di Hamas (anche all’estero). Si tratterebbe insomma di distruggere sì Hamas, ma con una guerra più lunga di quella che in questo momento hanno in mente gli israeliani.
3.Più ostaggi liberati e più aiuti umanitari possibili
Questi due aspetti sono fondamentali per Biden. Il presidente, rivela Axios , intende portare fuori da Gaza gli oltre 500 cittadini statunitensi intrappolati nella Striscia e il maggior numero possibile dei circa 220 ostaggi rapiti da Hamas, e anche per questo gli serve tempo. Lo stesso vale per gli aiuti umanitari, necessari a evitare o limitare l’ecatombe di civili, e dunque l’accusa di «doppio standard» che i nemici dell’America (o i suoi critici in buona fede) le scagliano puntualmente addosso.
4.Evitare ogni tipo di escalation
Cos’è un’escalation? Treccani: «Intensificazione brusca, spec. di fenomeni negativi; aumento, crescendo, crescita, incremento, spirale». Merriam-Webster: «Aumento in estensione, volume, numero, quantità, intensità o scopo». Traslata sul piano militare e geopolitico, consiste dunque nell’aumento dell’intensità di un conflitto e/o della sua estensione geografica. Ci sono però, spiega l’analista israeliano Alon Pinkas, un paio di distinzioni da fare e 4 sottotipi da individuare:
— Escalation verticale: «Indica un aumento, graduale o acuto, della potenza di fuoco distruttiva e letale e un incremento dell’impiego della forza in un determinato teatro di conflitto». Nel nostro caso, se la guerra nella Striscia assume contorni ancora più catastrofici di quelli attuali.
— Escalation orizzontale: «Significa che il conflitto militare e le linee di ingaggio si espandono geograficamente a un altro fronte, confine o teatro operativo». Qui la mente va subito a Iran, Hezbollah, Siria: Israele accerchiata e l’America costretta a intervenire per difenderla.
— Escalation intenzionale: «È la decisione consapevole e deliberata di una parte di allargare il conflitto, aumentare la potenza di fuoco e diversificare i mezzi e le piattaforme utilizzate».
— Escalation non intenzionale: «Significa che il conflitto o la zona di guerra si allarga come risultato di calcoli errati di una o di entrambe le parti, di un’interpretazione errata dell’intelligence e di deduzioni e percezioni errate sulle reali intenzioni dell’altra parte».
Il problema è quando questi 4 sottotipi si intersecano e si combinano. Il fisico e futurologo Herman Kahn, nel suo saggio On Escalation: Metaphors and Scenarios (1965), ha identificato «44 pioli sulla scala dell’escalation», 44 possibili combinazioni dei 4 sottotipi. Non è fanta-geopolitica, tantomeno nel nostro caso: la guerra di Gaza, spiega Pinkas, «ha potenzialmente tutte le caratteristiche: verticale, orizzontale, intenzionale e non intenzionale».
È chiaro che questi scenari rappresentano esattamente l’incubo dell’America, aggravato dalla sensazione che Israele possa sottovalutarli. Un’escalation verticale (carneficina terrificante a Gaza) condurrebbe probabilmente allo sviluppo più temuto a Washington, l’escalation orizzontale, l’allargamento della guerra. Dal minuto 1 di questa crisi, Biden e il suo segretario di Stato Antony Blinken si muovono anzitutto per scongiurare questo rischio. Hanno mandato le portaerei per avvisare Iran e Hezbollah, ma hanno anche detto subito che non ci sono prove del coinvolgimento iraniano nell’attacco di Hamas.
Da parte loro, Iran e Hezbollah hanno un obiettivo simmetrico a quello americano: vogliono usare Gaza per indebolire il più possibile Israele, ma non al punto da sacrificare per Gaza la loro priorità, che è il controllo strategico del Libano.
Israele è invece incerta anche su questo: il ministro della Difesa Yoav Gallant avrebbe voluto rispondere massicciamente agli attacchi della milizia sciita che hanno portato all’evacuazione di migliaia di israeliani anche a Nord, ma il premier Benjamin Netanyahu — che, pur con tutti i suoi devastanti errori, resta l’adulto nella stanza di un governo pieno di estremisti, e ha recuperato un rapporto personale con Biden — si è opposto all’estensione del conflitto. Così come Netanyahu è storicamente contrario a offensive di terra massicce, e se questa volta non potrà evitarla, con l’aiuto di Biden sta cercando di limitarla.
Qui subentra un altro concetto fondamentale: escalation dominance, la padronanza dell’escalation. Significa, spiega Pinkas, «il controllo e la capacità di una parte di intensificare un conflitto in modi che sarebbero costosi e svantaggiosi per il nemico. Israele può pensare di possedere l’escalation dominance. Lo stesso l’Iran. In realtà nessuno dei due la possiede, ed è per questo che gli Stati Uniti sono così ansiosi».
5.Decidere ora cosa succede dopo (e prima o poi: Stato palestinese)
Che fare di Gaza dopo l’offensiva di terra? Qual è la «partita finale» di Israele, il suo obiettivo strategico? Le dichiarazioni dei primi giorni — «Cambieremo la mappa del Medio Oriente e la storia dei prossimi 50 anni» — e l’evacuazione imposta alla popolazione del Nord della Striscia hanno fatto temere tentazioni terribili, come la deportazione in massa degli abitanti di Gaza e la creazione di altri due milioni e passa di profughi palestinesi. Uno scenario inaccettabile per l’America, il mondo arabo e il mondo tutto, che in questo momento pare scongiurato. Né appare realistica una ri-occupazione. Come ha spiegato Itamar Rabinovich della Brookings Institution, «Israele non vuole rimanere nella Striscia di Gaza e controllare e amministrare altri 2 milioni di palestinesi. L’unica parte ragionevole e possibilmente disponibile ad assumerne il controllo sarebbe l’Autorità nazionale palestinese, che è stata brutalmente espulsa da Hamas nel 2007. L’Anp però è debole, impopolare e alla vigilia di una potenziale lotta per la successione. Non vorrebbe tornare a Gaza sotto le baionette israeliane e andrebbe trovato un custode ad interim regionale o internazionale».
Questo per il primo dopoguerra. Per la fase successiva, gli americani hanno resuscitato un morto, o rivitalizzato un moribondo: lo Stato palestinese, la mitica «soluzione dei due Stati». Ancora oggi molti commentatori ci ridacchiano su. Ma i termini espliciti con cui Biden e Blinken ne hanno parlato fanno pensare che la rimozione della questione palestinese, coltivata da israeliani e occidentali in questi anni, sia la vera idea improponibile. Se Biden batterà di nuovo Trump, ne sentiremo riparlare in termini concreti. Non subito, ma nemmeno mai.
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